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Stazione Napoli Nord-Ovest. Tratta Giugliano-Piscinola. Piscinola-Dante.

In massima parte disperazione. L’ennesima relazione era andata al vento. “Non sei la ragazza per me” mi aveva detto e tutto l’amore, i baci, le parole, le promesse, le serate calde d’estate a fumare sigarette su di un marciapiede ad immaginare il futuro , erano finite. Sono quelli i momenti in cui senti che più niente sia importante, che non molto ti possa ancora stupire, che la vita è solo vita e non ha la dinamicità del romanzo. I giorni passano tutti uguali, senza azione, senza cambiamento. Ma per quanto alla mia anima romantica piaccia, per una qualche forma di sadismo, crogiolarsi e sbrodolarsi di dolore quando ce n’è in abbondanza, ad un certo punto decide che è tempo di uscire da quello stato di cose, di raccogliere ancora una volta il guanto di sfida che la vita ha gettato in terra dopo averti debitamente schiaffeggiata. Mai come quel giorno era stato tanto forte il richiamo della terra madre, che mi chiedeva di avvicinarlesi per potermi dolcemente cullare. Scendere a Napoli, per me ragazza di periferia, è sempre stato un bisogno di ricongiungimento alla realtà quando ormai nella mia testa si erano già confusi i fatti veri e quelli magnifici, le emozioni belle con quelle dolorose.

Sotto la statua di Dante aspettai la mia amica Maria che stava seguendo una lezione di arabo vicino al Duomo e con cui avrei dovuto incontrarmi per un caffè. Mi misi seduta ed accesi la mia sigaretta. Niente sembrava rapire il mio interesse: né i mercatini di piazza Dante, né la policromia dei libri sulle bancarelle sotto Port’Alba, né la folla di persone che entrava ed usciva dalla metro. Tutti avevano le stesse facce, tutto era colorato di un grigio tenue. Pensavo di essermi sbagliata,che neanche Napoli quella volta sarebbe riuscita a darmi quella scossa di vita che mi serviva per potermi riprendere. Rassegnata, prendevo le ultime boccate dalla sigaretta. D’improvviso colpì stranamente la mia attenzione un tizio non particolarmente insolito, tutto sommato. Aveva l’aria del comune turista: felpa a lunghe maniche,pantaloncini corti ed infradito. Con il cartoccio ancora sporco degli ultimi residui di una pizza a portafoglio, si avvicinò alla panchina su cui ero seduta.

“Hi, nice to meet you. I’m Frank. Do you speak english?”

Il mio primo pensiero fu “tiè tiè…solo l’inglese adesso ci mancava”. Valutando la mia evidente esitazione,al mio “Not very well” cominciò a parlarmi in una strana lingua mista di vocaboli italiani ed inglesi. Trovammo così bizzarro il modo coniato per comunicare tra di noi che cominciammo a ridere per molte delle nostre parole. Mi raccontò che fosse di NewYork, aveva girato per diverse capitali europee nell’ ultimo mese insieme ad alcuni suoi amici ma che a loro fosse scaduto il passaporto prima di riuscire ad entrare in Italia ed adesso si trovava lì da solo a Napoli.

Il giorno dopo sarebbe partito per la Sicilia dove aveva dei suoi parenti italiani che lo avrebbero ospitato. Gli chiesi che cosa avesse visto di Napoli. Mi disse che per lo più avesse fatto un giro gastronomico delle migliori pizzerie. Era andato da Sorbillo e da Michele e le aveva trovate entrambe fantastiche. Mi disse che aveva mangiato solo pizza negli ultimi tre giorni, a pranzo e cena, a colazione caffè e babbà. Adesso voleva provare la sfogliatella. “So, you should go to Pintauro…” “Oh, where’s it?”

Giunse la mia amica Maria e le presentai Frank. Tra loro la conversazione era molto più fluida. Dopo un paio di convenevoli, lo salutammo e cominciammo ad allontanarci. Un paio di passi, però, mi bastarono per farmi capire che ci stavamo lasciando alle spalle qualcosa di bello. Che Napoli è innanzitutto di chi la guarda tutti i giorni ma che è importante, talvolta, ritrovarla anche negli occhi di chi la osserva per la prima volta, perché la si possa riscoprire. Perché non si diventi assuefatti dalla bellezza che abbiamo avuto la fortuna di avere in dono. Ritornammo da lui,ancora seduto alla stessa panchina e lo invitammo a prendersi un caffè con noi.

Accettò volentieri e ci ritrovammo seduti ad un bar con la nostra tazzina di oro nero. Ci chiese che cosa avrebbe dovuto vedere assolutamente di Napoli,secondo il nostro parere. Senza esitazioni gli consigliai Napoli sotterranea. Il mio gusto un po’ gotico mi spinge sempre ad amare le cose oscure,profonde. Niente in generale riesce a farmi sentire a più stretto contatto con la mia terra natia come una gita nei suoi visceri, nel suo ventre. Un contatto così diretto non l’ho mai sentito neanche nuotando nelle sue acque o sulla cima del Vesuvio. Un cliente del bar casualmente urtò il nostro tavolino,ed il mio bicchiere d’acqua cadde a terra. “Mannaggia a’ miseria” esclamai e Maria cominciò a ridere. Frank ci chiese che cosa avessi detto di divertente e da qui cominciò una lunga lezione di lingua napoletana.

“Mamm’t is your mother instead mamm’m is my mother,okay?”

“Okay…and his mom,for example?”

“ That is a mamm e iss or a mamm e chill”

“ A mammeis’”

“No, a mamm e iss. Repeat.”

I nostri insegnamenti, non risparmiandoci neanche il turpiloquio, sono proseguiti ancora mentre accompagnavamo il nostro nuovo amico a mangiare la desiderata sfogliatella. Come guidati dalla corrente di un fiume ci ritrovammo a Piazza Plebiscito e lo sottoponemmo alla prova dei Cavalli di Canova. “Now close your eyes…”. Partendo dall’entrata del Palazzo Reale, guidato dalle nostre voci, un ragazzo americano percorreva ad occhi chiusi i 170 metri della piazza, tra gli sguardi divertiti degli astanti che sapevano quale sarebbe stato il risultato dell’esperimento. Se fosse stato uno degli schiavi a cui la regina Margherita avesse promessa salva la vita se fosse riuscito nell’impresa, neanche il nostro Frank avrebbe saputo salvarsi. “Com’è possibile?” era l’interrogativo nascosto nei suoi occhi, una volta riaperti, mentre si guardava in giro e si vedeva tanto lontano dallo spazio tra i Cavalli. Ridemmo fragorosamente per lo scherzo della nostra città burlona e doppiogiochista, che adesso il nostro amico cominciava a sentire anche come un po’ sua. Le ore erano passate senza neanche accorgercene ed in cielo cominciavano a brillare le prime stelle.

Frank ci disse che a New York a causa delle troppe luci era difficile trovare un posto dove poter guardare le stelle. Mentre contemplava il cielo, come un bambino al suo primo approccio con la neve, pensai a quel mondo di oltreoceano da dove lui proveniva e alla mia città, lì sotto i miei piedi, al mare a pochi metri di distanza, al flusso della vita che mi circondava e stringeva in una morsa d’amore: i ragazzi che andavano verso Mergellina per l’uscita della sera, gli anziani che tornavano a casa dalla loro passeggiata a riva di mare con il giornale sotto braccio, le madri che rincasavano dai loro piccoli dopo una giornata di lavoro. La consapevolezza che niente mi mancava, che bastava scendere un attimo a Napoli per trovare quello di cui avevo bisogno, che la mia città fosse il modo per spezzare la quotidianità mentre gli altri vivevano la propria. Napoli che è il sogno e la realtà.

L’inaspettato nelle tue giornate grigie. I saluti con Frank sono stati di piena consapevolezza. Sapevamo che verosimilmente non ci saremmo visti più, malgrado la foto sugli scogli, malgrado lo scambio dei contatti. Ma sapevamo perfettamente che nessuno ci avrebbe potuto strappare i ricordi di una giornata magicamente perfetta nella sua semplicità e che un pezzo di noi sarebbe rimasto per sempre tra le strade di Napoli, tra le innumerevoli altre storie.

“See you soon, Frank!”

“Ciao Kitemmuò! Detto bene?”

“Si, meglio di un napoletano”

 

-Claudia Muto

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