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La Regia Strada di Ferro: brandelli di ricordi di quella che fu

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« Domani il Conte inaugurerà la nuova strada di ferro Torino – Genova » intitolava il Progresso Subalpino il giorno 5 giugno 1854.

Ed effettivamente il giorno dopo, puntuale alle cinque del mattino, una folla di torinesi applaudiva Camillo Benso Conte di Cavour mentre a fatica tagliava il nastro azzurro della strada di ferro per far strada alla gente verso il marciapiede della stazione.

Il fumo nero della vaporiera che appestò signore e bambini non intimorì però il Conte che con un sorriso smagliante si arrampicò sulla prima delle tre carrozze adibite al corteo di quella mattina. Uno squadrone di cuochi gli dispiegò davanti la colazione, necessaria prima di un viaggio in treno di cotanta importanza, così che dopo i panini al prosciutto e il cioccolato gianduja il Conte potesse goderne a stomaco pieno e quindi sicuramente meglio.

I soldati e i sergenti parlavano fitto tra di loro a voce bassa mescolando lingue che il Conte neanche riusciva a comprendere. Che cosa ne sarà quando costruiremo un Regno d’Italia, pensava, se già adesso nel solo Regno di Sardegna non ci capiamo tra di noi?

Infastidito, come si sa, dalle cose che non riusciva a capire, il Conte decise di andare a interloquire con i macchinisti perché, semmai non avesse dimestichezza con la lingua degli ufficiali, sicuramente avrebbe capito come parlavano degli operai. Ma non ne uscì proprio contento da quella locomotiva a vapore perché se fuori da là era il tedesco che il Conte non masticava molto bene, là dentro invece doveva avere a che fare con una lingua che non aveva sentito mai con le sue orecchie.

«Si ijo tiro sta leva d’o freno, che d’è chistu ccà Vostra Eccellenza, ‘e rròte si bloccano» gli comunicò il fuochista senza farsi distrarre dalla sua stessa riverenza. Il Conte in testa sua rimuginava in francese da che parte del Regno potessero venire quei due lavoratori, ma la verità stava nel fatto che non l’avrebbe mai indovinato. «Vedite Signure, chistu lavoro è difficile assaje. Eppure il Regno vostro poco ci pava pe’ li periculi ‘e sta fatica!» osò pronunciarsi poi.

Sbalordito il Conte gli chiese allora da che diavolo di Regno stessero affermando di provenire e quelli «Simm ‘e Napoli Vostra Eccellenza. Stiamo qua a Torino da quando il nostro Re Ferdinando, gloria all’anema soja!, vendette ‘sti vaporiere al re Carlo Alberto»

«Ce le vendette lui a noi, voi dite? … Ma forse ci siamo dimenticati di pagarle?»

E effettivamente nel 1847 l’Officina di Pietrarsa aveva venduto al Regno di Sardegna ben sette locomotive a vapore, tutte però regolarmente pagate, ognuna con un nome diverso.

La storia di quelle locomotive era cominciata dieci anni prima, quando Armando Bayard de la Vingtrie, un ingegnere francese, espose il suo progetto ferroviario al ministro di Ferdinando II. Quello stesso anno infatti cominciarono i lavori per la prima rete ferroviaria su suolo italiano, la Napoli-Portici, che avrebbe collegato a lavori ultimati, quindi nel 1844, Napoli con Torre del Greco, con Castellammare fino a Nocera.

La fabbrica di San Giovanni a Teduccio fu adibita alla costruzione dei vagoni, mentre le locomotive inizialmente furono acquistate dalla società inglese Longridge Starbuck e Co. e poi costruite nella nuova fabbrica di Pietrarsa, da cui partirono molte di quelle che vennero impiegate per le reti ferroviarie del Regno di Sardegna prima, e del Regno d’Italia poi.

La Napoli-Portici non fu solo, come si pensa, un collegamento tra le residenze reali o un mezzo di comodità per le truppe, ma anzi trasportò fin da subito utenti di tutti i tipi; dopo pochi mesi la società fu in grado addirittura di agevolare i cittadini meno abbienti con una riduzione dei prezzi già nel 1840.

Esempio di progresso e di avanzata mentalità, la società dopo essere stata conquistata dal novello Regno d’Italia fu poi smantellata e i materiali adibiti alla costruzione della rete ferroviaria furono saccheggiati e riutilizzati per le ferrovie del nord e per la rete Sud-Nord che venne poi costruita in modo da agevolare la migrazione operaia.

di Vittoria Pinto 

foto di Federico Quagliuolo

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